lunedì 16 giugno 2008

Il Principio di Equilibrio


IL DIO DELL' EQUILIBRIO

Caravaggio, Sacrificio di Isacco.

Caravaggio reinterpreta la storia biblica del "Sacrificio di Isacco" alla luce di una diversa concezione filosofica dell'Universo: "l'Equilibrio è la Legge fondamentale dell'Universo (Dio Padre), mentre l'Armonia è una legge del mondo (il Figlio)".
La Legge dell'equilibrio stabilisce dei rapporti diversi tra gli uomini; non più fondati sulla prevaricazione del più forte (istinto di sopravvivenza) o del più intelligente (istinto di adattamento), ma sulla qualità dell'istinto di equilibrio di adeguare il mondo esteriore a quello interiore, e viceversa, in base alle necessità del momento e alle condizioni storiche, economiche, politiche, sociali e culturali in cui l'individuo si trova a vivere.

Ciò significa che al "Dio" dei limiti morali, dei sacrifici, della responsabilità sociale e della ricerca ambiziosa di assomigliare a Lui in tutto e per tutto (Yavhè) deve subentrare un nuovo "Dio", più aperto, disponibile, malleabile e probabilmente più equilibrato nel giudizio e "flessibile" nel richiedere all'individuo l'assoluta fedeltà e osservanza delle prescrizioni morali, etiche e spirituali (il Cristo del Giudizio dipinto da Michelangelo).
La Legge dell'Equilibrio richiede sia all'uomo che alla "religione" cui crede di instaurare un rapporto fondato non più sull'obbedienza e la fede cieca nei dogmi e nelle leggi, ma sulla reciproca disponibilità a "convalidarsi", a "riconoscersi" e a "legittimarsi". Non esiste alcun potere religioso, politico o spirituale che possa vantare "referenze di credibilità" se non è 'sostenuto' dal bisogno dell'individuo di affidare la cura del corpo, dell'anima e della mente a qualche ente superiore.

Abramo sta per sacrificare il figlio Isacco, per obbedire alle parole di "chi" chiede obbedienza e spirito di sacrificio. Il figlio rappresenta la pulsione di vivere, il desiderio di godersi la vita,la libido creativa e tutte quelle manifestazioni psichiche che contraddistinguono l'individuo che si "rifiuta" di diventare un numero, una "scheda" in una rivista d'arte, un impiegato modello o una "pedina elettorale".

Il "Dio" dei sacrifici e della razionalizzazione delle pulsioni creative in vista di un "progetto più ambizioso da compiere", cova all'interno di ogni individuo che si illude di compiere la cosa giusta.
La "cosa giusta" si chiama di volta in volta con diversi nomi: carriera, vita agiata, sicurezza sociale ed economica, successo,ecc.... In nome di questo Dio siamo pronti a sacrificare tutto, anche i figli, l'amore e l'autoespressione creativa.
Dall'alto del cielo scende un angelo a fermare il coltello di Abramo. Il momento è carico di pathos. L'angelo lo afferra al polso all'ultimo istante e gli mostra con l'indice che il paradigma della felicità non si trova nell'obbedienza cieca alle leggi (divine e umane), ma nella ricerca dell'Equilibrio.
La linea invisibile che porta lo sguardo fuori dal dipinto descrive un punto preciso che l'astrologia spirituale del rinascimento chiama Discendente. L'angelo invita Abramo a cambiare punto di vista e accettare dentro di sè l'esistenza di un Dio che non chiede "la morte della pulsione psichica", poichè è proprio nell'espressione creativa di questa pulsione di vivere, godere e comunicare che è racchiusa l'essenza della felicità. E dove c'è la soddisfazione interiore di essere se stessi, di esprimere liberamente creatività, desiderio e amore senza limiti e inibizioni, allora c'è anche il "Figlio di Dio", ovvero l' Harmonia Mundi.

Nel Discendente (la Bilancia), ovvero dalla parte opposta dell'Ascendente (l'Ariete), esiste un mondo di perfezione che non può essere compreso intellettualmente, ma solo sperimentato. Nel punto opposto all'ariete (l'ego e l'autoaffermazione sociale) non c'è l'anima con tutte le sue paure inconscie e subconscie , ma un diverso soggetto (artistico, estetico e percettivo) che agisce in armonia con la Legge universale dell'equilibrio (la Bilancia). La "capra" dipinta da Caravaggio vicino alla testa di Isacco descrive la razionalizzazione naturale delle pulsioni che si compie evolvendo nelle modalità della percezione artistica (la bilancia).
La legge dell'equilibrio è sinonimo di "Bellezza, Giustizia e Discriminazione". Senza queste tre forme "mature" di consapevolezza spirituale delle immagini (Arte alchemica) non può avvenire nessuna salvezza dalla banalità quotidiana e dall'oblio di chi siamo veramente.

Dorn, un alchimista del seicento, scriveva; "Quale follia vi induce in errore? Perchè Egli vuole che in voi, e non fuori di voi, tutto ciò sia trovato che voi cercate fuori e non dentro voi stessi: l'uomo comune ha il vizio di disprezzare tutto ciò che gli è proprio (gli istinti e le pulsioni) e di bramare sempre ciò che gli è estraneo...la vita, luce degli uomini, brilla in noi seppur oscuramente, come nell'oscurità."

Fonte:
Jung: Psicologia e Alchimia
Caravaggio: Il sacrificio di Isacco
www.museohermetico.com

sabato 14 giugno 2008

Appartenenza e solidarietà


"Questi due termini indicano una tensione costitutiva della sfera etica. Non solo dell’etica umana, poiché ogni vivente partecipa, quale più quale meno (e la filosofia, scientia qualitatum, ignora le differenze quantitative), dell’ambivalenza originaria tra il sentimento di sé e del proprio gruppo e, d’altra parte, il senso di solidarietà che lo lega alla specie o, meglio, all’universo.

All’uno diamo spesso il nome di egoismo (individuale o di gruppo, poco importa), all’altro quello di amore o, almeno, di pietà. A prima vista, l’etica sembra affidarsi all’ideale della solidarietà, al dovere imperativo di superare il proprio limite particolare, e di giudicare le azioni con occhi più universali, cioè più razionali. Ma quando questo impulso alla solidarietà arriva a negare o persino a sopprimere il senso, a esso contrario, dell’appartenenza, inevitabilmente si tinge di astrattezza, e anche il più generoso cosmopolitismo rischia di piegarsi a inerte rassegnazione.

È facile solidarizzare con i paesi poveri e sottosviluppati, più difficile è rinunciare, per il loro sollevamento, al benessere e ai vantaggi materiali che comporta per noi e per i nostri figli. Come sapeva bene, e forse persino troppo bene, Karl Marx, il quale in effetti legò la prospettiva di una rivoluzione emancipatrice non alla solidarietà o al cosmopolitismo, ma all’appartenenza: che non era appartenenza al borgo o alla nazione ma alla classe, e che perciò lo portava a concepire la solidarietà come una solidarietà degli appartenenti a quella classe, degli sfruttati del mondo.

Il senso dell’appartenenza, d’altronde, si colora di tutte le sfumature possibili, dalle più innocue alle più feroci: dalla cura per sé e per la propria famiglia, alla difesa della patria e alla guerra per difenderne i confini, al tifo sportivo per una squadra di calcio (che è sempre quella del luogo natio) fino alle più rozze xenofobie, che vorrebbero vedere solo il proprio gruppo ed escludere o eliminare gli altri. È difficile pensare che il senso dell’appartenenza, radice di eroismo e di egoismo, e quello della solidarietà, origine di comprensione e di amore e di pietà, possano mai davvero unificarsi in un ideale razionale superiore.

L’appartenenza (come la lingua madre) è, per certi versi, un destino, che non ci siamo scelti, ma che pure pesa come una responsabilità sulle nostre vite: un destino che, come insegnava Jaspers (e Platone, assai prima di lui), si traduce facilmente in colpa per azioni mai commesse. E’ solo per questo, d’altronde, per il destino di appartenere a una comunità, che, non diversamente da quanto accadeva nella tragedia attica, le colpe dei padri si trasmettono a figli altrimenti incolpevoli.

Forse sarebbe meglio vivere tale destino (anche quando assume un carattere etnico o di classe) con quel gusto mite e pessimistico, quasi amaro, che accompagnava il genio dell’antichità, che ci insegna che a esso siamo sì vincolati, e che difficilmente vi possiamo sfuggire, ma che al destino si china la testa con intelligenza e abito colto, senza superbia o tracotanza." (articolo di Mustè)

Le riflessioni del filosofo occidentale sono, come spesso accade da cinque secoli di secolarizzazione della morale cattolica, il consueto modo di legittimare l'egoismo "ereditato" dalla nazione e cultura di appartenennza, perchè comunque inscritto in una specie di codice genetico. Per la filosofia alchemica che emerge dai processi di modificazione della Materia, il senso dell'appartenenza diventa sempre più sfumato, labile e finiosce per scomparire definitivamente quando, per dirla come S. Paolo, diventiamo una cosa sola in Cristo....

mercoledì 11 giugno 2008

La Tolleranza come regola


La libertà d'espressione è un valore umano e nella sua stessa libertà di dire, disumano. Le opinioni razziste, xenofobe, sessiste, sadiche, astiose, sprezzanti hanno lo stesso diritto di esprimersi dei nazionalismi, delle credenze religiose, delle ideologie settarie dei clan corporativisti che le incoraggiano apertamente o subdolamente secondo le fluttuazioni dell'ignominia demagogica. Le leggi che le reprimono, quale, in Francia, la legge Gaussot del 1992, attaccano il "puerile rovescio delle cose" senza nemmeno sfiorare le cause.

Esorcizzando il male anziché prevenirlo e guarirlo, sostituiscono la sanzione all'istruzione. Quelle che devono essere condannate non sono le idee, ma le vie di fatto. Oggetto d'incriminazione non devono essere i discorsi ignominiosi del populismo - altrimenti bisognerebbe denunciare anche la loro subdola infiltrazione e la loro presenza camuffata nelle dichiarazioni demagogiche della politica clientelare e benpensante -, ma le violenze contro beni e persone, perpetrate dai fautori della barbarie.

Il buonsenso dimostra che è incoerente proibire Mein Kampf di Hitler, Bagatelle per un massacro di Céline, i Protocolli dei savi anziani di Sion, o le opere revisioniste, e, d'altro canto, tollerare le frasi misogine di Paolo di Tarso e del Corano, le diatribe antisemite di San Gerolamo e Lutero, un libro farcito d'infamie come la Bibbia, l'esibizione compiaciuta delle violenze che costituiscono la materia ordinaria dell'informazione, l'affissione onnipresente della menzogna pubblicitaria e le tante falsità storiche ratificate dalla storia ufficiale.

È meglio non dimentircarlo: una volta instaurata, la censura non conosce limiti, perché la purificazione etica si nutre della corruzione da essa denunciata.

Non si combattono e non si scoraggiano l'ottusità e l'ignominia vietando loro di esprimersi: la miglior critica di uno stato di fatto deplorevole consiste nel creare la situazione che vi pone rimedio. L'ottusità, l'infamia, il pensiero ignobile sono il pus di una sensibilità ferita.

Impedire che scorra significa infettare la ferita anziché diagnosticarne le cause al fine di guarirla. Se non vogliamo che un'aberrazione finisca con l'infettare il tessuto sociale come un tumore maligno, dobbiamo riconoscerla per quello che è: il sintomo di un male nell'individuo e nella società.

Il sintomo non è condannabile; condannabile è la nostra poca prontezza nello sradicare le condizoni che propagano il prurito, l'ascesso, la peste. Al desiderio di "schiacciare l'infame" è preferibile nutrire il desiderio di vivere meglio... ovvero più umanamente.

La libertà di parola non fa altro che esprimere, al meglio e più di frequente al peggio, ciò che è nascosto nel corpo e nella coscienza dell'uomo, snaturato da secoli di disumanità. Nessuna ignominia deve restare indicibile, pena il radicarsi ancor più di un comportamento solipsistico di cui essa corrobora le cause.

Oggi possiamo constatare come le ideologie inclini a professare il disprezzo di sé e degli altri si espongano al ridicolo via via che lo spirito di clan, di tribù, di nazione, il razzismo, la xenofobia, la misogninia, l'avarizia, l'autoritarismo, l'istinto di appropriazione e di predazione, il desiderio di avere e di apparire più che di essere rifluiscono lentamente verso il passato.

L'infamia con cui vengono marchiate le rinsalda nella loro indegnità e nella loro melensa nostalgia: non c'è nulla che rafforzi tanto l'ottusità quanto il rendere ragione mediante l'esacrazone e la polemica. Se tante cattive reputazioni sono dovute soltanto al disprezzo e all'odio, è perché esiste, tra chi disprezza e chi è disprezzato, una segreta e reciproca attrazione.

La proibizione pungola la trasgressione. Ciò che è represso suscita la voglia di "sfogo" e gli inganni del risentimento. Accanirsi contro l'ottusità e l'ignominia porta soltanto a renderle più subdole e più odiose. Schiacciare l'infamia la risuscita sotto un'altra forma; anziché favorire la felicità individuale, ne cancella perfino il ricordo.

Il modo peggiore di condannare certe idee è quello di criminalizzarle. Un crimine è un crimine e un'opinione non è un crimine, quale che sia l'influenza che le si imputa. Vietare un discorso col pretesto che può essere nocivo o scandaloso significa disprezzare coloro che lo ascoltano e ritenerli incapaci di respingerlo come aberrante o ignobile. Significa difatti, secondo il metodo del clientelismo politico e consumistico, convincerli implicitamente che hanno bisogno di una guida, di un guru, di un maestro.

Le opinioni sono un pretesto, non una causa.
Le idee maligne muoiono del loro stesso veleno. Lasciate che si esprimano e si condanneranno da sole quando, sull'esempio della libertà che gli concederete, i costumi, anziché ritrarsi timorosamente dietro i bastioni di una protezione illusoria, si apriranno a una maggior umanità, a una maggior intelligenza, a una comprensione più grande che, togliendo i divieti, scoraggerà la loro trasgressione.

Non c'é simbolo, per odioso che sia, che gli atti del vivente non abbiamo il potere di neutralizzare. È assurdo vietare di portare il velo a delle giovani assoggettate all'islam. Imposto dalla famiglia, susciterà la ribellione, rivendicato come l'espressione di un'identità religiosa, diventerà, quando esse scopriranno la libertà dell'amore e della donna, un fronzolo simile alla veletta o alla mantiglia che la buona creanza cristiana esigeva dalle fedeli nell'epoca in cui la Chiesa tiranneggiava ancora le menti e i corpi, or non è molto.

Nessuna verità merita che ci si prostri di fronte a essa. Ogni essere umano ha il diritto di criticare e contraddire ciò che sembra una certezza o passa per un'evidenza scientificamente provata. Le speculazioni più folli, le asserzioni più deliranti seminano a modo loro il campo delle verità future e impediscono di ergere ad autorità assoluta la verità di un'epoca.

Nella fantasia più sbrigliata, nella menzogna più sfrontata c'e' una scintilla di vita che può ravvivare tutti i fuochi del possibile. Il fiorire delle eccentricità sta a ricordare che il centro della vita è ovunque e si schiude su una varietà infinita di scelte.

Una verità imposta con la forza è una verità che si corrompe. Non avendo tutti la medesima percezione della realtà, è bene che ci prendiamo la libertà di esprimerla e di comunicarla nella sua diversità, e in particolare al di fuori della prospettiva riduttrice che le mentalità impregnate dagli imperativi economici tendono a imporre come visione unica e razionale del reale. Rifiutare le tesi di Reich sull'orgone o di Benveniste sulla memoria dell'acqua non scusa affatto la mascalzonata di coloro che non hanno esitato a cacciarli dal loro laboratorio e a perseguitarli.

Una verità imposta si vieta umanamente d'esser vera. Ogni preconcetto dato per eterno o incorruttibile esala l'odore fetido di Dio e della tirannia.
D'altronde, il più miserabile dei criminali ha diritto a un avvocato che lo difenda, e chi rifiuterebbe la parola a un idiota, a un visionario, a un bugiardo psicopatico, a un Erostrato che incendia con i suoi discorsi i templi dell'evidenza?

Raul Vaneigem, "Nulla è sacro, tutto si può dire", 2003, edizione Ponte delle grazie

Sulla scorta di questa "arte" di pensare la libertà di espressione è possibile scoprire il senso della tolleranza. Applicata alla libera espressione di idee, fedi e costumi (anche i più esecrati come quelli dei Rom e della prostituzione) la tolleranza alchemica incoraggia la diversità ad omologarsi all'altra diversità, non meno esecrabile, dei benpensanti e dei moralisti.
Ad esempio:
1. La prostituzione dovrebbe essere omologata all'attività del commercio esercitata in opportuni "piazze", come le "zone industriali", e regolata dalle leggi di occupazione del suolo e delle autorizzazioni del caso. Ognuno è libero di prostituirsi, ma se è fonte di guadagno, paga le imposte e le tasse di occupazione del suolo come i commercianti.
La tolleranza alchemica omologa nei fatti e discrimina nei contenuti verbali di "coscienza". Non è possibile utilizzare "termini" di comprensione, compassione o commiserazione in nessun caso.

Tollerare la libertà di espressione significa, per riflesso, che ogni individuo, anche il più ignorante e debole, è consapevole delle proprie azioni e capace di valutare la propria condizione, nel bene e nel male.
Se non si riconosce l'esistenza di una autocoscienza critica comune a tutti gli esseri, per cui anche il soggetto che viene sfruttato da terzi è libero di decidere e autodeterminarsi in tal senso, è impossibile comprendere il significato di "omologazione sociale" nella tolleranza.

domenica 27 gennaio 2008

Odissea dello spirito

"L’arte è l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col cosciente.

Appunto perciò l’arte è per il filosofo quanto vi ha di piú alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato, e quello che nella vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente. La veduta, che in modo riflesso si fa della natura il filosofo, è per l’arte la originaria e naturale. Ciò che noi chiamiamo natura è un poema chiuso in caratteri misteriosi e mirabili.

Ma se l’enigma si potesse svelare noi vi conosceremmo l’odissea dello spirito, il quale, per mirabile illusione cercando se stesso, fugge se stesso; poiché si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso attraverso le parole, solo come, attraverso una nebbia sottile, quella terra della fantasia, alla quale miriamo.

Ogni splendido quadro nasce quasi per il fatto che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale dall’Ideale, e non è se non l’apertura, attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le regioni di quel mondo della fantasia, il quale traluce solo imperfettamente attraverso quello reale.

La natura per l’artista è non piú di quello che è per il filosofo, cioè solo il mondo ideale che apparisce tra continue limitazioni, o solo il riflesso imperfetto di un mondo, che esiste, non fuori di lui, ma in lui."

Schiller

domenica 10 giugno 2007

La misura come criterio



Anonimo, Cristo Pantocratore, Manoscritto XIV secololo


Nel XX secolo sono giunti a compimento i molteplici sistemi della conoscenza messi in atto dai processi di razionalizzazione delle risorse, delle informazioni e delle esperienze analitiche elaborati dalla scienza empirica che prende avvio dalla ragione illuminista.

Quattro secoli di evoluzione degli strumenti di indagine, delle tecniche di ricerca e dei metodi di analisi hanno generato il benessere materiale peculiare della società occidentale e nello stesso tempo sancito un diverso rapporto dell’uomo rispetto alla natura e al proprio agire all’interno di essa. Ogni forma di conoscenza dell’uomo, della natura o della materia si esplicita per mezzo di un metodo razionale di misura che si prefigge di esplorare le potenzialità di utilizzo e le possibilità di sfruttamento di ciò che si possiede e si manipola attraverso la tecnica. La tecnica è un dato originario dell’essere umano. Attraverso le mani, l’uso degli strumenti e la manipolazione della materia l’individuo realizza la ‘civilizzazione dei bisogni’.


Nella “città dei porci”, come la chiama Platone (Libro II), lo scopo della tecnica è la soddisfazione dei bisogni corporei elementari, mentre nella “città opulenta” le tecniche dovranno soddisfare i piaceri per cui “occorrerà mobilitare anche l’arte della pittura e della decorazione e procurarsi oro, avorio e ogni genere di materiale prezioso.” La realizzazione di ciò che è utile, buono e ragionevole per se stessi e gli altri richiede la conoscenza di un metodo di misura (la coscienza) che non può non dipendere da una specifica tecnica (la consapevolezza di sè) in grado di delimitare con precisione, come un compasso, la sfera dei bisogni materiali dalla sfera dei bisogni spirituali. La scelta di ciò che è conveniente, opportuno e giusto per gli individui e la collettività dipende quindi dal tipo di paradigma che l’individuo sceglie di utilizzare affinchè gli strumenti della coscienza razionale (le Virtù morali) siano in grado di esplicitarsi attraverso tecniche di misurazione (le regole, le norme e le leggi) controllate dalla Ragione.

Come afferma Platone, “nella tecnica di misurazione occorre distinguere una sezione che comprende tutte le tecniche che misurano il numero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza e la velocità rispetto ai loro contrari, e un’altra sezione che comprende tutte le tecniche che perseguono la giusta misura, e quindi il conveniente, l’opportuno, il dovuto e tutto ciò che tende al mezzo tra gli estremi.” (Platone, Politico). L’arte di misurare con il compasso sezioni sempre più ampie, metafora di una progressiva espansione della conoscenza della natura umana, è uno dei fondamenti dell’Alchimia spirituale che, al pari della Politica nel mondo materiale, si prefigge di stabilire una “Tecnica Regia” con cui giungere a definire, senza nessun dubbio o contestazione, ‘una scienza suprema in riferimento alla quale le cose ritenute moralmente giuste per l’anima diventano effettivamente utili e giovevoli per l’individuo che sperimenta quotidianamente il conflitto con la “libido” altrui.

Il Cristo Pantografo è una delle immagini più significative dell’Alchimia del pensiero razionale e descrive simbolicamente una specifica iniziazione alla “realtà terrestre” in cui tutti fenomeni (sociali, politici, economici, culturali) scaturiscono dal bisogno materiale (le visceri rosse), dalla libido di espandere ricchezza e potere (gli intestini frastagliati) e dalla necessità di ristabilire un ordine sociale in cui possa di nuovo essere rinnovata la ricerca del piacere e del confort (la guaina blu, metafora della cultura e dell’arte). Il cerchio tracciato dal compasso, metafora di una precisa conoscenza del nucleo centrale da cui partire per circoscrivere la realtà interiore, delimita la dimensione viscerale dell’individuo dal mondo in cui è invece vigile la consapevolezza di sè (il piede destro è fuori dalla cornice).

L’alchimista deve esercitarsi nell’arte di “circoscrivere” e “separare” i bisogni che caratterizzano la parte “animale”, legata agli istinti e alle pulsioni biopsicosomatiche, dai desideri e dalle aspirazioni dell’anima. La ‘tecnica del pantografo’ non è quella di discriminare moralmente la parte animale da quella propriamente umana, ma di rendere visibile e manifesto ciò che appartiene alla sfera degli istinti al fine di identificare, percepire, giudicare e distinguere l’azione dell’uomo giusto, consapevole di sè e del proprio karma genetico, dall’azione di chi occulta la propria natura sotto i panni del censore o del castigatore dei costumi e “proietta” il desiderio con sottili arti mistificatorie, come la buona educazione e la falsificazione delle apparenze.

postato da: museohermetico alle ore 15:19 | Permalink | commenti (6)
categoria:manoscritti, rinascimento