sabato 14 giugno 2008

Appartenenza e solidarietà


"Questi due termini indicano una tensione costitutiva della sfera etica. Non solo dell’etica umana, poiché ogni vivente partecipa, quale più quale meno (e la filosofia, scientia qualitatum, ignora le differenze quantitative), dell’ambivalenza originaria tra il sentimento di sé e del proprio gruppo e, d’altra parte, il senso di solidarietà che lo lega alla specie o, meglio, all’universo.

All’uno diamo spesso il nome di egoismo (individuale o di gruppo, poco importa), all’altro quello di amore o, almeno, di pietà. A prima vista, l’etica sembra affidarsi all’ideale della solidarietà, al dovere imperativo di superare il proprio limite particolare, e di giudicare le azioni con occhi più universali, cioè più razionali. Ma quando questo impulso alla solidarietà arriva a negare o persino a sopprimere il senso, a esso contrario, dell’appartenenza, inevitabilmente si tinge di astrattezza, e anche il più generoso cosmopolitismo rischia di piegarsi a inerte rassegnazione.

È facile solidarizzare con i paesi poveri e sottosviluppati, più difficile è rinunciare, per il loro sollevamento, al benessere e ai vantaggi materiali che comporta per noi e per i nostri figli. Come sapeva bene, e forse persino troppo bene, Karl Marx, il quale in effetti legò la prospettiva di una rivoluzione emancipatrice non alla solidarietà o al cosmopolitismo, ma all’appartenenza: che non era appartenenza al borgo o alla nazione ma alla classe, e che perciò lo portava a concepire la solidarietà come una solidarietà degli appartenenti a quella classe, degli sfruttati del mondo.

Il senso dell’appartenenza, d’altronde, si colora di tutte le sfumature possibili, dalle più innocue alle più feroci: dalla cura per sé e per la propria famiglia, alla difesa della patria e alla guerra per difenderne i confini, al tifo sportivo per una squadra di calcio (che è sempre quella del luogo natio) fino alle più rozze xenofobie, che vorrebbero vedere solo il proprio gruppo ed escludere o eliminare gli altri. È difficile pensare che il senso dell’appartenenza, radice di eroismo e di egoismo, e quello della solidarietà, origine di comprensione e di amore e di pietà, possano mai davvero unificarsi in un ideale razionale superiore.

L’appartenenza (come la lingua madre) è, per certi versi, un destino, che non ci siamo scelti, ma che pure pesa come una responsabilità sulle nostre vite: un destino che, come insegnava Jaspers (e Platone, assai prima di lui), si traduce facilmente in colpa per azioni mai commesse. E’ solo per questo, d’altronde, per il destino di appartenere a una comunità, che, non diversamente da quanto accadeva nella tragedia attica, le colpe dei padri si trasmettono a figli altrimenti incolpevoli.

Forse sarebbe meglio vivere tale destino (anche quando assume un carattere etnico o di classe) con quel gusto mite e pessimistico, quasi amaro, che accompagnava il genio dell’antichità, che ci insegna che a esso siamo sì vincolati, e che difficilmente vi possiamo sfuggire, ma che al destino si china la testa con intelligenza e abito colto, senza superbia o tracotanza." (articolo di Mustè)

Le riflessioni del filosofo occidentale sono, come spesso accade da cinque secoli di secolarizzazione della morale cattolica, il consueto modo di legittimare l'egoismo "ereditato" dalla nazione e cultura di appartenennza, perchè comunque inscritto in una specie di codice genetico. Per la filosofia alchemica che emerge dai processi di modificazione della Materia, il senso dell'appartenenza diventa sempre più sfumato, labile e finiosce per scomparire definitivamente quando, per dirla come S. Paolo, diventiamo una cosa sola in Cristo....

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